Festa mobile
Haiti è una festa mobile. Con buona pace di Hemingway e del suo omonimo libro. A Parigi ci son stato, anche da giovane, come consiglia lo scrittore suicida, spesso ed anche negli ultimi mesi, e a parte molta arte derubata al mondo e chiusa in gabbie sontuose, mi sono divertito poco e arricchito nulla. Ad Haiti, invece, tornerei domani. Perché Haiti è una festa, di quelle infinite come per i matrimoni d’un tempo, è il posto migliore che ad oggi conosca, dove essere allegri e sentirsi “contenti”, ossia paghi del contenuto. Quel contenuto, e pazienza se pare una nota retorica, è il suono della vita che scorre (e non c’è musica migliore, e prima o poi dovrò decidermi ad andare a stringer la mano, a complimentarmi con il compositore). È la percezione dell’immenso dono di cui sto godendo, e che più o meno cosciente, sperpero abitualmente.
Ad Haiti la vita si vede e si sente, ce la si scambia in ogni sorriso che si riceve per strada (e, per sfinimento, va a finire che anch’io, orso che sono, rispondo al sorriso e sorrido). Ad Haiti è in ogni momento una festa mobile, ed ovunque ti giri comprendi quanto sia inutile e insulso non esser felici, ancor più in questi altri Caraibi che sono vicini, eppure all’opposto d’un qualsivoglia esotico luna park tropicale per malinconici abbienti.
Nessuna carità, nessuna beneficenza: ad Haiti, per quel poco che ho potuto intravvedere, chi atterra apprende (o comprende che potrà prima o poi imparare) la forza liberatoria della Misericordia. Mica per gli altri: per sé, compassione per la propria miseria. Ed è come trovare il bandolo della matassa, il punto da cui ripartire. Finalmente deboli, si piange e si ride, consapevoli della gran forza che genera la coscienza della propria pochezza.
Haiti è una festa. Anche da dove sono venuto, sulla carta, tutto era un brillare di luminarie festive. Eppure, da dove sono venuto, tutto era ed è abitualmente sfuocato, d’inverno come d’estate: la morte, nel mio occidente natale, sembra non contemplata, è un imbarazzante fardello da tenere lontano dal salotto buono e dalla cucina, la morte è costantemente negata nonostante ci spii e sia da noi puntualmente spiata, con quell’angoscia che periodicamente non lascia dormire.
Ad Haiti, la morte è compagna di viaggio, di più, è l’invitata d’onore. Perché la sua presenza, pur difficile da accogliere, e scottante e disperante che sia, esalta la vita e ne mette a fuoco i valori.
La gioia è contagiosa e ad Haiti ci si infetta mille volte più che della dissenteria. La gioia ti fa sentire in pace e capisci (no, percepisci), che prima confondevi scioccamente i rami per gli alberi, mentre adesso intendi che le foglie quando è l’ora cadono ed i rami seccano, così come dev’essere, ma le radici restano salde e rigogliose (sempre che le si sappia trovare).
Tenerezza, ammirazione, e una memorabile lezione (che se va a finire che me la dimentico, non me lo perdonerò)… È ciò che ho portato con me, lasciando quello scalcinato aeroporto che conta più addetti che passeggeri. È il regalo più grande che ti puoi fare, andare e guardare i giardinieri di Haiti, mentre spendono ogni ora delle loro giornate, nel dissetare quei rami, nel trattenere fino a quando è possibile le foglie attaccate, nell’accompagnarle poi, morbidamente, a terra.
Penso a Padre Rick. Vieni ad Haiti, vienici a piedi o a nuoto, vieni anche solo per dargli un saluto, a questo giardiniere, a questo santo cowboy (perché se padre Rick non è un santo, di santi non ce ne sono), che sembra uscito da un film con John Wayne. Padre Rick, il dottor Rick, che ti accoglie nel suo ufficio/cucina dell’ospedale pediatrico che ha tirato su con le mani. Ti accoglie dopo una lunga giornata di corsia, nel tanfo selvatico delle interiora di pollo che sta cucinando per te. Ti offrirà dapprima gelato, gin tonic e caffè. Oltre a quella “leccornia” che sta cuocendo sul fornelletto da campo e che sorridendo magnifica, perché i suoi polli (ma anche i suoi pesci), migliaia, sfamano tante bocche denutrite e malate, e quando bisogna toglierli alla vita per l’ottimo motivo di renderla ad altri, chiama a raccolta per l’olocausto persino i colleghi chirurghi dell’ospedale.
Ciascuno col proprio piccolo innaffiatoio. Anch’io ne stavo cercando uno, ad Haiti (dove sia non so, ma so che vale la pena cercarlo). Anche tu puoi trovarne uno, se vieni ad Haiti. Volontari tedeschi, francesi, olandesi, statunitensi, italiani, persone d’ogni dove, infermieri, preti, ingegneri, studenti, medici, musicisti, col loro piccolo innaffiatoio, felici delle poche gocce che versano, del loro fazzoletto di terra, delle foglie che grazie a quell’acqua tornano ad essere verdi.
Compagni di viaggio
Sarebbe d’uopo forse ricominciare da capo, se deve essere una testimonianza: raccontare, dire date, citare luoghi (le scuole, gli ospedali, gli orfanotrofi visitati), condire con qualche statistica a crudo (“nell’isola ad oggi un bambino su tre non raggiunge i cinque anni d’età”), e poi colori e impressioni scandite in ritmo narrativo e in forma decenti.
Scrivere, non musica ma parole, scrivere, che è andata a finire è diventato il mestiere grazie al quale posso crescere mio figlio, resta un sentiero minato, amato e pericoloso, perché ad ogni angolo rischio d’inciampare nella trappola della finzione, dell’estetizzazione. Raccontando Haiti, però, mi sono preso da parte e mi sono fatto giurare che mai avrei giocato sporco, rimestando con gli usati trucchetti d’artigianato, giocandomi le carte avvincenti – pugni allo stomaco e carezze – in studiata sequenza, chiosando con un edificante finale. Piuttosto, poggio la penna. E che non sia così che vada a finire, resta da verificare.
Se penso alla mia prima esperienza ad Haiti, l’ultima al momento, la prima mi auguro, penso a una festa, a qualcosa di allegro, all’entusiasmo di quando apri le persiane su di un giorno di sole.
Penso ad Haiti, e vorrei dedicare tale piccolo sforzo (di mettere nero su bianco e dare una forma a questo pensiero privato), a tre bambini che ho conosciuto, tre giovani vite che ho incrociato in un momento particolare, per loro e per me. Di questi piccoli compagni di viaggio, a dirla tutta, non ne so neppure la forma del volto, ma conosco i loro nomi, perché padre Rick li ha chiamati all’appello, al principio della funzione. Li ho però sentiti, vicini, li ho salutati e persino li ho pianti (la commozione, brutta bestia, stupida perché non costruttiva, quando ti prende, a tradimento, alla gola). Li ho visti nelle loro piccole bare di cartone, fasciati della plastica, coperti da un panno, al centro della chiesetta dell’ospedale di St Damien. Mentre padre Rick, smessi i panni del dottore e del controverso cuoco di fegatelli di pollo, indossata una candida talare, girava intorno a loro ed ai loro feretri giocattolo, e li tranquillizzava cantando e riempiendo l’aria d’incenso, anch’io m’illudevo di star loro parlando. Mi illudo di averli rasserenati, nella strampalata coincidenza che me li ha fatti incontrare, nel momento più intenso, quello del loro passaggio.
I tre bimbi e noi tutti, abbiamo seguito, stupiti, la dolcezza del rito del primo mattino, e quelle parole di sollievo in francese, creolo, inglese e italiano, per voce oltre che di padre Rick, di don Enzo e don Alfred (che è venuto con noi dall’Italia). Mentre dalla porta aperta arrivavano altre preghiere, con altre voci (musulmane) che stavano parlando al Dio dirimpettaio del cielo. Poi, un segno di pace, che scambiarsi era come ritrovare ogni volta, ogni sconosciuto che si abbracciava, un amico fraterno. Alla fine, all’aperto, siamo saliti sul camion, sul dorso di un autocarro, tutti insieme, vivi e morti, cantando noi per chi non riusciva più a farlo, portando i nostri tre bambini in uno spiazzo tranquillo, sul retro dell’ospedale. Dove, pregando e salutando, li abbiamo lasciati a riposare dentro una specie di stanza contenitore, di quelle che s’impilano sopra le navi, dove sarebbero rimasti insieme ad altri bambini… Fino a giovedì, giorno settimanale per ritrovare la terra ed aver sepoltura.
Istantanee
Ti piace la velocità? Di domenica segui le auto da corsa in televisione? Spendi quanto puoi o forsanche di più per due o quattro ruote che brucino gomme e l’asfalto, e ti illudano di decollare? Allora vieni ad Haiti! La soglia di rischio sale di un po’, ma ne vale la pena. Ad Haiti le strade sono l’arena, la macchina che hai di fronte (o comunque il mezzo più o meno indenne e motorizzato, stracarico di umani e di cose, che procede su ruote) è l’avversario da battere, lo sfidante sfidato, l’ostacolo da superare. È una questione d’onore: vince chi si fa spazio a qualunque costo, chi scommette sul buon senso e sulla volontà di sopravvivenza dell’altro, chi suona più forte e va più veloce e non lascia respiro, non lascia neppure un piccolo spazio dove l’altro si possa infilare e tentare il sorpasso. Le maestre, a ricreazione, fanno cantare i bambini, battendo le mani e danzando: “Quando sei sulla strada, fai attenzione… Quando sei sulla strada, fai attenzione!”. Infatti: ogni strada, ogni sentiero carrabile, più o meno crepato o inondato se piove, e tramutato in fiume o pantano, vede ai suoi lati donne, uomini e tantissimi bimbi, anche di quattro o cinque anni d’età. Pronti a mettersi in salvo, a scansare questo esercito di caraibici pirati. Tutti, nessuno escluso, bucanieri al volante, col pollice lesto sul clacson e il codice della strada a correggere semmai la gamba d’un tavolino, oppure, data la contingenza, a raddrizzare una botte di rum…
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Cosa vogliono da me? Non ho neppure una caramella da dargli, ho le tasche vuote e non so neppure giocare così bene, o fare le smorfie per farli divertire, non so rincorrerli o prenderli a cavalluccio.
Aperto il cancello dell’orfanotrofio (che esiste, ancor prima della fondazione della Fondazione che porta il nome di Andrea, grazie ai proventi di un suo concerto donato), i bambini iniziano a studiarti, ti scelgono e poi si propongono: si avvicinano, principiano a scalarti agganciandosi alle mani con le mani, provando a salirti dai pantaloni, chiedendo attenzione, mettendosi in posa per le fotografie o per un sorriso, una, due, dieci, cento volte. Qualcuno forse chiede qualcosa, dei soldi, ma lo fa senza alcuna credibile convinzione, giusto perché è un gesto che ha visto rifare.
Ci provo, va bene, a scherzare, ad aprirmi con loro, ma non senza un languore e un impaccio, perché nel frattempo ciò che avverto è un pugno costante allo sterno… Nel porticato spoglio, qualche gioco consumato, monitori gentili ma come intorpiditi dal pomeriggio assolato, ed una rosa di patologie, d’età e disabilità, alla rinfusa. Insieme ad altri bambini, apparentemente più o meno sani, respira a fatica una creatura di pochi mesi, stesa su una sdraietta, con la spina dorsale che non le regge la testa. Poi un’adolescente con lo sguardo che sembra nuovo del mondo, e tanti panni per terra, sull’erba, ad asciugare, e odori di refettorio e d’ospedale, odori struggenti di cuccioli d’uomo.
Nessuno, tra loro, se ne fa nulla dei frutti senza polpa, della commiserazione, mia o di chiunque. Hanno ben altra fame, tutti: sono rubinetti aperti che cedono amore a chiunque abbia un istante per fermarsi e raccoglierlo, vogliono amore ed hanno sete di calore animale, da sentire sulle mani, da passare sulle guance e sul collo. S’aggrappano, sei suo padre, sei sua madre, sei subito il loro grande amico cui s’affidano, di cui si possono totalmente fidare. Poi devi andare. Ma prima, accidenti, devi fare le foto, perché servono a sensibilizzare, a portare a casa il ricordo e lo sprone, anche se in quest’amara mansione ti senti un rapinatore, a rubare quegli occhi, quelle espressioni, piene di fiducia e di rumorosa, improvvisa allegria. Poi devo andare, e i bambini lo sanno, tornano infatti al loro posto, senza protestare neppure, accettando che quel calore, il padre il fratello l’amico trovato, si perda di nuovo.
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Non è la capitale: meno di tutto, meno merce da vendere, meno delinquenza suppongo, meno strade degne di questo nome, meno (meno ancora) soldi che girano e però meno miseria. Jérémie, nel sud di Haiti, ci appare come un miraggio, dopo ore infinite di viaggio. Giusto un’interruzione a metà strada, per prendere fiato nel coloratissimo, dolce lungomare turistico senza turisti, alla Plage de gelee Cayes, tra molti cani questuanti, panorami da cartolina, qualche ricco haitiano che si permette di pranzare servito, ed altri che osservano, placidi, la scena della nostra comitiva infiacchita. Poi, nuovamente dentro, come filetti di tonno, in otto nel retro di un’ambulanza e poco meno dentro un pick-up… Le luci fioche di Jérémie sono un approdo fortemente invocato, perché il viaggio è stato un rally inatteso, perché sulla carta è finalmente la meta finale. Invece, il bello deve ancora venire. Ancora un’ora e mezza di buio e sterrato, di guadi e pietraie, di ruote indecise se impantanarsi o se proseguire, per raggiungere a tarda sera la comunità di Laserengue in Apricot, dove in una luce lattiginosa e surreale si aprono i cancelli della scuola di St. Augustin.
La struttura è vastissima e silenziosa, è uno dei risultati più recenti e – perlomeno ai miei occhi – più coraggiosi della fondazione, un miracolo targato ABF, un’astronave di studio e futuro nel bel mezzo della foresta, con decine di aule, giochi all’aperto e una sala multimediale che farebbe invidia alla scuola pilota del capoluogo in cui sono cresciuto.
Stanno ultimando il montaggio della mobilia nella cucina (che la mattina seguente, sarà terminata); manca ancora l’acqua corrente, perché la torre distante pochi metri dalla struttura è al momento all’asciutto: la trivellazione non ha dato i risultati sperati. Un’altra – con un nuovo, sostanzioso impegno economico – sarà decisa nei prossimi giorni. E questa volta si chiederà nel contratto la certezza di rintracciare una falda. Senz’acqua, per ora, ci si lava i denti e la faccia negli angoli meno illuminati dello stesso piazzale, e si dorme in una camerata allestita spartanamente per l’occasione… Non più di tre ore, anche grazie a un amico robusto che si è unito al gruppo dagli USA, un armadio a tre ante, amabilissimo e gentile, che però dorme russando come una trebbiatrice a vapore.
L’indomani, all’alba, prendiamo il sentiero che porta fino al mare, attraverso la foresta e le capanne di fango e cannicci. Un orizzonte spettacolare, che sembra uscito dal paginone centrale d’una rivista patinata di viaggi: la spiaggia, la sabbia, le palme, conchiglie che devi tirar su con due mani, ed una calma fuori dal tempo, ed una armonia fuori dal tempo. Il silenzio è rotto dalle grida dei bimbi e dal suono dei loro tuffi: già si stanno lavando, in uno specchio protetto di mare, giocando e schiamazzando in perfetta allegria, prima di indossare la loro colorata divisa, con la fierezza e la cura che si tributa a un oggetto di culto.
Rientriamo sul dorso d’un camion, e i bambini già pronti che stanno raggiungendo la scuola (a volte, per più di un’ora in cammino), quando possono corrono e s’aggrappano, godendo del passaggio e stipando quella malcerta corriera da carpenteria.
Quanto ci aspetta, in cima, saranno ottocento meravigliosi studenti, piccoli e grandi, in fila perfetta, che cantano l’inno e ringraziano voi donatori, che mostrano il loro futuro che giorno per giorno stanno forgiando.
Sulla collina antistante, a cinque minuti di passeggiata, sta crescendo, tra ponteggi di canne e mattoni realizzati sul posto, quella che diventerà la guest house, per offrire un tetto a chi viene da fuori. Dall’alto, la bellezza imbandita toglie il respiro: il mare, da un lato, ovunque poi il verde denso e inviolato che veste questa terra ondulata, e poi l’astronave, l’edificio che raccoglie giornalmente il sole di ottocento treccine e sorrisi e piccole vite, dando loro cibo per la mente e la pancia, ed alle loro famiglie, lampade solari per illuminare la notte, lavoro, futuro.
Il profilo di Andrea Bocelli è stampato in blu sul muro laterale della St. Augustin, dentro le iniziali della fondazione che porta il suo nome: dalle colline toscane fino a questo lembo del quarto mondo, ha portato alimenti e istruzione, ha dato una speranza concreta. Sono certo che quanto sto pensando lo metterebbe solo in grande imbarazzo, e cambierebbe argomento in cinque secondi… Giusto così, infatti non glielo dirò e non glielo scrivo neppure. Ma, proprio come padre Rick, credo che Andrea sia un santo dei nostri giorni, una persona che ha orizzonti più ampi, più grandi. E delle sue toste, un po’ folli e sorprendenti ministre, tra la Toscana e le Marche, Laura ed Olimpia (otto volte ad Haiti, solo quest’anno, per dar corpo ai progetti), una che canta la lirica l’altra che sa ballare la caraibica e carnalissima kompa, ne vogliamo parlare?
In valigia
Cosa ho portato a casa, da Haiti? Voglio dire, oltre a una decina di alberi della vita e variazioni fronzute sul tema, battute su metallo ritagliato, forgiate e dipinte sul ferro riciclato dei barili di nafta? Nel bagaglio a mano, sfacendo la valigia, ho trovato ad esempio una serie di preconcetti smontati uno ad uno: hanno i volti dei colleghi di viaggio, di questa missione. Padre Alfred, monsignore che riveste una carica delicata e importante in Vaticano, uomo di fiducia di Papa Francesco. Un alto prelato, un profilo di grande responsabilità (e di altrettanto potere)… Un uomo docile e spiritoso, riflessivo e garbato, modestissimo nelle esigenze, brillante e generoso in comitiva, così come nei saluti del Santo Padre di cui è portavoce, per centinaia di volte e di aule, per migliaia di studenti haitiani: una persona buona che in pochi giorni ho sentito amica e che, in ragione di nessun motivo, ascoltava me, ascoltava tutti.
Ascoltava e si divertiva, tra l’altro, alla storiella pepata raccontata con un pizzico di provocazione da Giacomo, il creativo del web, il fotografo, con la sua scorza di disincanto apparente ed una dichiarata prudenza verso le uniformi talari. Curioso, perché entrambi, Don Alfred e Giacomo, l’alto prelato e l’art-director, erano quasi parenti a mio avviso, quanto a sensibilità, a qualità del sentire, a profondità dello sguardo sul mondo. E poi, Giuseppe, avvocato che tutto diresti tranne che sia un avvocato (a scanso d’equivoci, è un complimento), e che “mai mettersi in fila dietro di lui” in aeroporto, perché sta certo che lo fermeranno per un accurato controllo.
Ed ancora, Stefano e Monia, padre e figlia: lui, donatore ABF, cofondatore di una realtà finanziaria tra le più rinomate nel mondo, lei, una giovane donna che è figlia ed amica del padre (diciannove anni appena, la distanza tra loro). Entrambi, come tutti noi del resto, cercavano qualcosa dentro di loro, in questo viaggio, e al ritorno, dai loro sguardi e sorrisi, si direbbe l’abbian trovato. Entrambi, incondizionatamente, anime buone e “brave persone”, che è l’espressione più bella di cui a mio avviso ci si possa fregiare.
Ci raggiungono, inoltre, il secondo giorno della settimana haitiana, Gunilla e Charlotte, madre e figlia, donatrice l’una, volontaria l’altra, sempre ABF, catapultate da New York all’aeroporto di Port-au-Prince e subito alle dieci ore di sgangherato tragitto per guadagnare Abricot. Anche in questo caso, tutto il contrario di quanto, scioccamente, mi sarei potuto prefigurare: non una richiesta diversa dal gruppo, non una lamentela, non un capriccio di chi è comunque avvezzo ad un tenore mille miglia più alto… Solo e sempre, da queste due bellezze scandinave un po’ toscane ed un po’ monegasche, gentilezza, sorrisi, gratitudine, umanità, abbracci veri e caldi ai bambini, e la disponibilità costante ad essere silenziosamente utili agli altri.
Cosa ho portato a casa da Haiti? La full immersion nelle scuole e nelle comunità sostenute dai progetti ABF; l’ospedale pediatrico di Port-au-Prince, le parole belle e dure come pietre del nostro accompagnatore (le ho registrate, prima o poi le trascriverò), mentre raccontava i vari reparti, i quotidiani miracoli, i bisogni, le scelte da fare, mentre descriveva l’ala del fabbricato dedicata ai prematuri, la sala chirurgica e il progetto nel reparto neonatologia intitolato a Virginia, la parte dedicata all’AIDS, alla cura ed alla sua prevenzione…
Cos’altro? Lo slum di Citè Soleil, l’immenso girone dantesco di macilente lamiere su distese di melma e detriti, e poco lontano, la nuova possibile realtà, dove dare a queste povere vite un tetto e la dignità (grazie, in questo caso, al meraviglioso lavoro della fondazione haitiana Saint Luc, partner di ABF, creata da Padre Rick Frechette, in trincea da ventisei anni).
Porto in Italia la gioia della distribuzione dell’acqua, grazie al water truck ABF che giornalmente percorre le baraccopoli, porto il profumo caldo del rum agricolo Barbancourt, l’atmosfera allegra e familiare della cena che ha riunito, oltre a noi visitatori ABF, Don Enzo ed un Cardinale dell’isola, amico ritrovato di Don Alfred. Porto con me l’incontro con un popolo dolce e solare, votato alla musica e alla bellezza, porto la loro speranza e la forza delle loro potenzialità, la simpatia e la premura di Gerald, la scorbutica e meravigliosa Roselyn, i tanti vecchi e nuovi amici haitiani: medici, manager, autisti, volontari.
Da Haiti, dal lato esente da resort cinque stelle dell’antica Hispaniola, chiamata Quizqueia, e cioè “madre di tutte le terre”, ho portato a casa la voglia di fare, di tentare di fare qualcosa di buono, ed anche il ricordo di quei tre piccoli, sconosciuti compagni di viaggio, che ho incontrato l’ultimo giorno della mia permanenza, nella chiesetta di St. Damien: quei tre bambini che ho salutato ed ho pianto, nella strampalata coincidenza che me li ha fatti incontrare, nel momento più intenso, quello del loro passaggio.
L’inferno Haiti? Al primo che così mi dirà (perché così leggo, talvolta), risponderò sorridendo: allora vieni con me, giù fino all’inferno! Perché Haiti è tutt’altro, è una festa, e a saperla guardare, a saperle dare una mano (aiutando pure te stesso, anzi in primis te stesso), è un Eden con la sua brava schiera di santi. Magari, al momento, non proprio. Ma è un paradiso comunque, un paradiso, prossimo venturo.
Giorgio De Martino