29 novembre 2015. Sul volo di rientro da Haiti, diretto ad Atlanta per la coincidenza con Roma. Ho tempo per riflettere sulla missione, su questa incredibile avventura e ripensare al tuffo nella realtà nel quale mi sono immerso negli ultimi giorni. Ho una certezza: nessun racconto seppur vivido e dettagliato, nessuno scatto fotografico, niente è nessuno potrà trasferire l’emozione di vivere una settimana ad Haiti in mezzo agli haitiani. Gli amici italiani ai quali ho  raccontato che sarei venuto ad Haiti continuavano a ripetermi frasi come “beato te che vai al caldo” o “divertiti e riposati”… Ho provato a dire loro che non si sarebbe trattato di un viaggio di relax in un resort cinque stelle, ma nell’ immaginario collettivo, si pensa ad Haiti come ad una spiaggia assolata piena di palme e conchiglie, haitiane in topless che ti offrono latte di cocco direttamente infilando la cannuccia nella noce appena aperta dal Mandingo muscoloso con la sciabola e musica rilassante di ukulele suonata dal gruppo folcloristico con tanto di percussionisti autodidatti che hanno la musica nel sangue. Beh, non è questa l’Haiti che ho visto io. Sapevo cosa aspettarmi avendo curato il sito dell’Abf e avendo avuto accesso a tutto l’archivio fotografico scattato durante le ultime missioni,  ho avuto modo di farmi un idea dei posti che avrei visitato, della povertà che i miei occhi avrebbero visto. Ma essere lì, in mezzo alla vita che ogni giorno inesorabile si ripete nell isola ha significato toccare delle corde del mio animo che probabilmente ancora nessuno aveva mai pizzicato. Di Haiti ho potuto vivere situazioni molteplici, sia al centro della città sia attraversando la vita a distanza di molti km dalla capitale in un villaggio situato nella punta dell’isola: St Geremia. Grazie all Abf credo di aver vissuto scenari che pochi stranieri hanno il privilegio di scoprire nella propria vita, un po’ per via della pericolosità, se non vi si transita con nativi del posto che sanno scortarti senza rischiare di essere aggredito, e un po’ per via del territorio impervio nel quale per muoversi servono autisti esperti in grado di raggiungere località nemmeno indicate sui migliori navigatori satellitari.  Se chiudo gli occhi e ripenso a questa esperienza mi sovvengono gli sguardi increduli e profondi, stupiti e curiosi dei bambini haitiani nel vederci arrivare. L’affabilità, l’innocenza, l’inconsapevolezza della realtà che c’è nel resto del mondo, rendevano quegli sguardi più veri di ogni sguardo che ho mai potuto incrociare nella mia vita. Volevano comunicare, volevano dimostrare una dignità che nel mondo occidentale è sempre più un concetto astratto. Non erano sguardi che cercavano compassione ma erano sguardi di gratitudine. Erano felici. La felicità spesso la si ricerca nel benessere, nell’auto affermazione, nel lusso. Quei bambini erano felici ma senza avere nulla di tutto questo. Erano felici perché erano lì. Perché erano vivi, perché il sole tramonta e i fiori sbocciano, perché vedevano delle persone amiche che, seppure non conoscevano, erano pronte a tendere loro una mano. La ABF e’ una organizzazione fondata da Andrea Bocelli che porta aiuti a queste popolazioni. A volte si ha qualche titubanza nell’affidare i propri soldi ad un ente benefico, perché i fatti di cronaca, in alcuni casi, hanno dimostrato che associazioni mondiali si sono rivelate dei grandi bluff utili per riciclare denaro. L’ABF e’ una fondazione capace di far arrivare i soldi dei propri sostenitori direttamente in mano alle persone che ne hanno realmente bisogno. Ad Haiti ho potuto visitare cinque grandi strutture scolastiche, costruite da questa associazione, che danno a più di duemila bambini la possibilità di studiare di mangiare (gratuitamente) e la speranza in un futuro. L’ABF ha acquistato cisterne che portano l’acqua nello Slum (la baraccopoli di Port au Prince la capitale Haitiana) gratuitamente tre volte al giorno. L’ABF ha costruito e sta costruendo ospedali e acquedotti che garantiscono a molte persone la possibilità di bere e di curare la propria igiene personale. L’ABF ha un progetto di sensibilizzazione e di prevenzione da Hiv e da’ la possibilità alle madri di bambini sieropositivi di curarsi e curare i propri figli grazie al cibo e ai medicinali necessari. Questi solo alcuni dei progetti che ho potuto documentare nel mio reportage fotografico. E che spero esorti chi la voglia di vedere i miei scatti, di fare qualcosa per queste persone.  Da piccolo ero scout, e mi dicevano che se uno è scout da bambino lo rimane un po’ per tutta la vita. Oggi mi riecheggia nella testa le frase di Robert Baden-Powell “Cercate di lasciare questo mondo un pomigliore di come l’avete trovato”. Credo che questa frase e la mia esperienza si sposino perfettamente. Servono dei gesti di solidarietà, anche dei piccoli gesti, per migliorare la qualità di vita anche di un solo bambino haitiano. Tra le prime visite alle strutture scolastiche costruite dall’ABF ho visitato St. Geremia. Dalla Guest House, dove alloggiavo con tutto il gruppo, ci sono volute circa nove ore di viaggio per arrivarci. Eravamo in un pickup quattro ruote motrici con i finestrini oscurati, prestatoci per l’occasione dall’ospedale di St.Luke  (gli haitiani sono soliti non aggredire le ambulanze) e percorrevamo strade dissestate che, per km e km, erano costeggiate da piccole baracche o tettoie di lamiera arrugginita sostenute da pezzi di legno, in qualche piccolo centro abitato in cui comparivano piccole costruzioni cementizie e qualche insegna dipinta a mano. Cartelli dei politici locali attaccati un po’ ovunque: qualcuno staccato, qualcuno usato per accendere la brace. Persone, bambini, anziani tutti ugualmente sudici per lo smog, la terra e un igiene personale probabilmente scarso per via dei problemi alle risorse idriche. Pulmini con marmitte rotte e fumose che trasportavano gruppi di persone strette come sardine. Mezzi improbabili agghindati, quasi, a carrozzoni del carnevale dipinti a mano, che con frasi inneggianti Jesus e il suo grande amore per lui sfioravano quel limite quasi impercettibile tra il “trash” e la Pop-aArt con un retrogusto ingenuamente blasfemo. Quasi nessun mezzo era perpendicolare alla strada almeno una delle quattro ruote era diversa o sgonfia. Odore di Diesel che malgrado avessimo i finestrini chiusi penetrava nelle narici.  Dopo aver attraversato un fiume con il pick-up e mangiato un’aragosta cucinata da un’anziana signora su un piccolo chiosco in riva al mare abbiamo raggiunto St.Geremia. L’impressione è stata quella di vedere un astronave che era atterrata in mezzo ad una montagna dimenticata da Dio. Un paesaggio naturale mozzafiato, un posto isolato da tutto, senza una vera strada per arrivarci, senza un cartello o un bollino su qualche mappa. E li, in mezzo al nulla una struttura stupenda a ferro di cavallo costruita da Abf, una scuola. Dietro quei boschi, che avevamo oltrepassato di notte in auto, vivevano centinaia di famiglie su capanne fatte di laterizi, terra, paglia e legno. E i figli di quella popolazione poteva usufruire di una struttura modernissima dotata di mensa acquedotto, elettricità computer, una tv al plasma da sessanta pollici, giochi per bambini, una biblioteca. Una struttura che ha dato a molte persone locali tanto lavoro e tanta speranza. E ai loro figli la possibilità di studiare come ogni bambino su questa terra dovrebbe.

Dopo aver dormito qualche ora su delle brande, una lunga passeggiata nella sterpaia che a poco a poco è diventato un villaggio. Un paradiso terrestre: nel fiume, i bambini, alle cinque e trenta di mattina, facevano già il bagno; fiori esotici, palme e di tanto in tanto, un angolino abitato da qualcuno. Gente senza nulla, gente che probabilmente non ha nemmeno un’ idea vera e propria di che cosa c’è oltre quelle montagne, ma persone con sguardi sereni e una grande dignità. Mentre scendevo a valle verso il mare incontrai una bambina con la divisa che ABF da ai bambini per studiare, tutti gli studenti in Haiti portano una divisa. In testa dei codini precisi e ben disposti che culminavano con dei fermagli colorati dello stesso colore della divisa. Dei calzini con delle rouche alla caviglia. Avrà avuto tre o quattro anni. Deliziosa. Il suo sguardo di stupore nel vederci arrivare la immobilizzò. Provai a chiederle il nome ma mi guardò senza rispondere. Non aveva paura ma era stupita. I suoi occhi erano due piccole gemme che brillavano nella foresta. Non conferì parola. Il suo viso ci seguì fino a che non ci allontanammo e poi riprese a camminare in salita verso la scuola. Affiorano tanti ricordi, quasi difficile ricollocarli nello spazio tempo. Troppi input concentrati in pochi giorni. Troppe emozioni forti da immagazzinare. Dopo aver visitato la spiaggia ritornammo alla scuola. Varcato il grande cancello si presentò una folla di bambini dai tre ai dodici, tredici anni circa tutti in uniforme scolastica color salmone e cioccolato. Appena arrivammo, tutti si collocarono in pochi attimi come neanche un battaglione militare sa disporsi nel grande cortile di fronte la scuola. Erano pronti per l’alza bandiera e per salutarci. Di colpo intonarono una loro canzone e di tanto in tanto riuscivo a decifrare la parola “mercì”. Un groppone alla gola, io “l’uomo di ghiaccio” mi sono sciolto e sono scese delle lacrime.

Sciolte le righe, alcuni bambini mi vennero in contro, un po’ tutti i volontari del gruppo, furono attorniati  dai bambini.

Alcuni ti prendevano la mano, altri si aggrappavano alle gambe. Tanti ti sfioravano il vestito in segno di saluto. Visi felici. Sguardi allegri. Erano contenti di stare dentro quella scuola e in qualche modo vedendo il logo stampato sulle nostre maglie, già ci vedevano come amici, familiarizzavano e sorridevano. Qualcuno si arrampico fino a sopra le mie spalle mentre fotografavo, era un simpatico bimbetto acrobata, che mi appoggiava la sua testa nella spalla. Una grandiosa giornata che era valsa tutte quelle ore di auto al limite della sopportazione. Dopo questa esperienza, forse la più positiva, mi sento di raccontarne un’altra fatta l’ultimo giorno ad Haiti.

Faccio una premessa, per chi non conosce la storia di quest’isola, anche se mi auguro siano pochi a non conoscerla. Haiti dopo il terremoto che l’ha devastata nel duemiladieci deve ancora rimettersi in piedi, lo Slum si estende per decine di km ed è composto da una baraccopoli di lamiere, fango e materiali improvvisati, nelle quali vivono migliaia di persone, molte delle quali arrivate nella capitale alla ricerca di una vita migliore. Un destino crudele per molti li ha costretti a rifugiarsi nell’unico posto in cui, credo, nessuno avrebbe mai voluto vivere: la baraccopoli.

Sono entrato nello Slum e subito sono arrivati i bambini, ero con altri volontari. Quei denti bianchi a forma di sorriso contrastavano con il quadro circostante, non capivo come potevano essere apparentemente felici in una condizione di vita così assurda. Forse erano nati li, per loro quella era: la normalità. Per la mia mente, era inconcepibile. Cataste di rifiuti maleodoranti si alternavano a fogne a cielo aperto, nei quali alcuni bambini giocavano con la massima tranquillità come i nostri figlio giocano al mare con la sabbia. Perlopiù seminudi o con qualche straccio addosso. Le scarpe bucate o qualche ciabatta, privilegio solo di pochi. Un bambino corre con un filo alla cui estremità è attaccato un piccolo aquilone, ricavato da qualche stecca di legno e sacchetti di plastica usati. Altri si avvicinano e mi chiedono “ball?” Volevano un pallone con il quale giocare, ma che purtroppo non avevo. Alcuni marmocchi, di uno o due anni, immobili scrutavano il gruppo di volontari con sguardo circospetto. E tra risate, sorrisi e sguardi, curiosi alcuni ragazzi più grandi, guardavano le nostre scarpe da ginnastica con un ammirazione quasi estatica. Le donne lavavano i panni in grandi secchi di latta e alcuni anziani appoggiati alle pareti di fango aspettavano un tram che non sarebbe mai passato. Piccoli maiali neri sporchi e rantolanti ogni tanto mi passavano vicino. Non è stato possibile addentrarci troppo nello Slum, poiché non tutte le bande che si dividono le zone di quel luogo paludoso e laido, sono tolleranti e sarebbe stato troppo rischioso. Una donna mi tamburellò ad una spalla e mi chiese uno scatto fotografico io le indirizzai l’obbiettivo della mia reflex e divertita iniziò a fare pose da pinup, un gioco di pochi secondi per rompere la quotidianità. Magari da bambina sognava di diventare una fotomodella. Di tanto in tanto mi fermavo a scattare foto, e dietro quella macchina fotografica si nascondeva la mia malinconia. Uno dei preti che abbiamo conosciuto ad Haiti, ci ha accompagnato a vedere una zona, di quella baraccopoli, che grazie ad un progetto simile a quelli dell’ABF sta bonificando lo Slum. Sostituiscono un po’ alla volta le capanne con delle piccole casette in muratura. Non ho una grande simpatia per i preti, lo ammetto. Non sono neanche credente, ma so distinguere uno sguardo di una persona buona da una cattiva. Be quella persona nella vita ha una missione, aiutare gli altri e lo sta facendo ad Haiti ad una delle popolazioni più difficili, da aiutare in tutto il nostro pianeta. E lo sta facendo con occhi pieni di amore. Chapeau padre, qualsiasi sia la tua religione quello che stai facendo è meraviglioso.

A cosa mi è servita quest’esperienza? La paragono a una sbornia, e quando stai male qualcuno ti prende la testa e te la mette dentro un secchio di acqua gelida per farti rinsavire.

La vita spesso è una sbornia. La testa nel secchio gelato è Haiti.

Ringrazio i fantastici compagni di viaggio, delle persone stupende.

Ringrazio le mie amiche Veronica, Olimpia e Laura che hanno messo la mia testa nel secchio gelato. Questo bagaglio di esperienze, che sto riportando con me in Italia, sarà utile per affrontare il futuro con molta più leggerezza.

I problemi veri sono altri e spero di continuare a dare il mio contributo per risolverli. Infine, dal mio cuore, partono i complimenti ad Andrea, per questo grande progetto: ABF.  Ti voglio dedicare tutti i sorrisi che i bimbi hanno fatto a me.

Giacomo Moresi