Senza compassione non c’è cura

«L’arte della vita cristiana sta nell’accogliere – e saper vivere, simultaneamente – una grande tristezza ed una grande gioia. Si può assorbire la sofferenza dei nostri fratelli, senza difese, si può pagare questa condivisione provando un dolore bruciante, e contemporaneamente si può gioire: per le perle d’umanità che trovi lungo il cammino, per le storie a lieto fine, per l’esperienza che metabolizza e trasforma le sofferenze assimilate nell’energia necessaria per dare il meglio di sé, per offrire il proprio contributo e cercare di cambiare le cose. Lavorando in un ospedale, da molti anni ho un contatto quotidiano con la sofferenza e con la morte: assisto a scene strazianti ma anche a gesti meravigliosi, atti d’eroismo rigeneranti che regalano speranza. Evitare la tristezza, scansare il dolore, è illusorio oltre che fallimentare, come si evince da escamotage distruttivi e frequenti, quali l’utilizzo delle droghe».

Da trent’anni in prima linea ad Haiti, padre Rick Frechette, sacerdote passionista (dal 1979) e medico statunitense, alla guida di N.P.H. e dell’affiliata Fondazione St Luc, ha voluto essere vicino ai suoi bambini, in occasione del debutto newyorkese delle “Voices of Haiti”. Circostanza rara e preziosa, per godere della sua compagnia, per un primo bilancio sul progetto musicale ABF e St. Luc, ed anche per le riflessioni che puntualmente le conversazioni con padre Rick innescano, per l’arricchimento spirituale che producono.

Un debutto speciale

Quando l’avventura statunitense delle “Voices of Haiti” si chiude, si apre il futuro dei nostri giovani coristi. Un’esperienza, quella che hanno vissuto, che chiede la giusta lentezza per essere assorbita e compresa, per essere utilizzata al meglio, in questi cuori entusiasti e probabilmente confusi da così tanti stimoli: bambini che rientrano in famiglia portando negli occhi un bagno di musica e di affetto, e sostanzialmente un mondo nuovo e diverso che ha improvvisamente e vertiginosamente accresciuto il loro bagaglio umano. Ai loro educatori, allo staff St. Luc e ABF, il compito di condurli per mano, lungo un percorso di crescita che possa capitalizzare al meglio quanto hanno vissuto.

Padre Rick è ottimista: «Sono certo che sia stata un’esperienza molto positiva per i bambini, anche se – sia “in loco”, sia una volta rientrati ad Haiti – deve essere sempre “guidata”. Modelli di vita e di sviluppo diversi non sono, per loro, una realtà del tutto nuova: attraverso la televisione i bambini sono comunque esposti a scenari diversi dai loro. Credo viceversa che lo scoglio più difficile stia nella separazione: negli Stati Uniti hanno condiviso un momento molto intenso, insieme ad Andrea, agli istruttori, ai volontari… Hanno fatto molte nuove amicizie, hanno provato sentimenti forti, quali ad esempio la dolce sensazione di essere apprezzati. Il distacco, perlomeno momentaneo, sarà sicuramente motivo di sofferenza. E parimenti di crescita».

Nuovi orizzonti

«Viaggiare apre a nuovi orizzonti: vale per tutti ed anche per i nostri coristi, che è come se avessero ricevuto una formazione universitaria concentrata in una manciata di giorni. Tutto ciò che di differente hanno visto, avrà provocato in loro riflessioni ed anche comparazioni. Porteranno a casa l’esempio dell’accoglienza, del cosa significa essere ricevuti bene, nonostante la non comprensione della lingua. Questo bagaglio si integrerà con la loro vita, acquisirà un significato concreto, stimolerà idee e sogni, sarà utile per alimentare il coraggio necessario ad incominciare, esattamente da dove sono e con quello che hanno, a portare avanti le loro nuove visioni di un futuro possibile. Questa è la vera scommessa!

Credo che al loro ritorno le “Voices of Haiti” troveranno tante persone interessate ad ascoltare i loro racconti, a vedere le fotografie, ad alimentare la personale speranza di viaggiare, conoscere, cambiare. Naturalmente non tutti colgono un’opportunità nello stesso modo: alcuni si augureranno di poter fuggire, rinnegando dunque il proprio paese. Proprio per questo sottolineo come una simile esperienza debba sempre essere ben guidata. Ed è ciò che proviamo a fare, insieme.

Trent’anni fa, quando mi sono trasferito ad Haiti, il divario tra la vita nell’isola e nei vicinissimi Stati Uniti era clamoroso ed incolmabile. A quel tempo valutavo ugualmente terribile e condannabile la povertà ad Haiti e la ricchezza nel mio paese d’origine: dovevo combattere, dentro di me, con un forte senso di ribellione. Poi ho compreso come la prosperità in sé non sia assolutamente un male e che questi due mondi apparentemente lontani potevano incontrarsi e vicendevolmente uscirne arricchiti: di valori, di dignità, di bellezza interiore… Guardate questi bambini che cantano insieme, trasmettendo gioia, speranza, amore: è straordinario toccare con mano il valore, appunto, di vite sconosciute e marginalizzate. Percezione che ci fa comprendere all’istante che siamo, tutti, una cosa sola, una sola famiglia».

«Oltre le parole»: l’incontro con Andrea

«Andrea ascolta, ben oltre le parole. Infatti non parliamo molto, ma quel poco basta, ad entrambi, per comprendere i nostri sentimenti, i nostri progetti, la nostra missione. La sua sensibilità è sviluppata ben oltre il consueto… Ricordo che mi raccontò come, la notte successiva al terremoto, egli percepisse, nel suo cuore ma non solo, le grida delle persone, vittime di quella terribile fatalità».

Profittando d’avere padre Rick al nostro fianco, nel corso di una cena, gli chiediamo di raccontare le circostanze del primo incontro con Andrea Bocelli. «Amici comuni gli avevano parlato di Haiti, suscitando in lui curiosità per l’attività che portiamo avanti sull’isola. Ha dunque offerto di devolvere un concerto in favore della fondazione Rava, che in Italia rappresenta l’organizzazione N.P.H. – Nuestros Pequeños Hermanos. In occasione dell’evento benefico, svoltosi ad Ancona, ho avuto la possibilità di conoscerlo. Dopo poco tempo ha realizzato una propria fondazione, ed attraverso di quella ha proseguito nel proprio aiuto, nella propria vicinanza all’isola ed ai suoi molteplici problemi.

Alcuni suoi gesti d’attenzione, privati e discreti, mi sono rimasti nel cuore e soprattutto danno la misura della sua sensibilità. Ad esempio, nel giorno di Natale del 2009, sapendo che mia mamma – sua grande fan – era gravemente malata, le telefonò per farle gli auguri e si intrattenne con lei, facendole così un grande regalo. In quei giorni io le ero accanto: dopo aver trascorso tutta la vita lontano da casa, ero rientrato per starle vicino, per aiutarla a morire, come sacerdote e come medico, per controllare il dolore ma anche per cogliere l’irripetibile opportunità di parlare insieme di tante cose.

Il terremoto, che tante vittime ha fatto, personalmente mi ha sottratto questa possibilità, mi ha derubato dell’ultima occasione per stare con mia mamma. Dopo aver seguito in TV la tragedia che si stava consumando, mi disse: io sono un disastro ma tu devi andare, perché qui non puoi nulla, mentre là puoi salvare molte vite. Lacerato, turbato nella fede, partii. Ma non fu possibile arrivare ad Haiti: l’aeroporto era fuori uso e fui dirottato nella vicina repubblica Dominicana. La famiglia Bocelli, venuta a conoscenza dell’emergenza, smosse all’istante l’impensabile, al punto di farmi accompagnare a Port au Prince a bordo dell’elicottero presidenziale. Questi sono, Andrea e Veronica».

Fare la differenza nella storia degli altri

Prendersi cura delle persone e far così la differenza, nella storia degli altri: il mondo è diviso tra chi nutre questo slancio e si pone di fronte all’altro (non sopra né sotto, di fronte) per comprendere come e cosa sia possibile fare per lui, e chi no. È il senso del richiamo espresso nel corso dell’omelia che padre Rick ha tenuto, domenica 18 settembre, presso la “Church of the Blessed Sacrament” nell’Upper West Side di Manhattan. La funzione domenicale, per l’occasione, ha ospitato il coro haitiano, l’intera delegazione ABF e St Luc, oltre naturalmente ad Andrea e Veronica.

Attingendo alla fonte inesauribile del Vangelo, padre Rick ha rimarcato come chi fa bene le piccole cose, farà bene anche le grandi… Ha dapprima accennato al proprio vissuto di pastore e medico, parlando di come tante persone di buona volontà – e tra queste, anche Andrea e Veronica – abbiano preso a cuore il futuro dell’isola… E da piccole cose, ne hanno fatto via via di sempre più grandi. Grandi quanto la ribalta delle Nazioni Unite, del Lincoln Center, del Radio City Music Hall, del “Cipriani”, del “Clinton Global Initiative”. Ha citato poi uno dei mille casi di vita vissuta, raccontando di una famiglia haitiana, afflitta da gravi problemi di salute e indigenza, e di come la vita dei loro membri sia cambiata clamorosamente, solo perché c’è stato chi si è preso cura di loro, e li ha aiutati concentrandosi dapprima sul “come” e poi, subito, agendo.

Anche i bambini del coro provengono da situazioni familiari fragili e complesse. Dagli slum di Port au Prince ai Gala esclusivi a Manhattan, magari alla presenza di famiglie reali, il tragitto sembrerebbe immenso, la connessione, impossibile. Viceversa, una relazione virtuosa è non solo possibile ma auspicabile. E può fare la differenza, nella storia di questi e di tanti altri bambini. Perché dove c’è la volontà (di prendersi cura), c’è la via.

La concretezza del Vangelo

«Anche per noi sacerdoti, il momento dell’omelia è una medicina, perché parlando si ascolta, perché anche per i religiosi vale il motto che recita: insegnando si impara». Profondamente colpiti dalla predica di padre Rick, abbiamo avuto la possibilità di approfondire l’argomento in un contesto più informale. Tolto l’abito talare, il nostro interlocutore sottolinea la concretezza e la “praticità” del Vangelo. Citandone una parabola, rimarca un concetto delicato e cruciale: l’azione è molto più potente dell’intenzione, fare una cosa buona “senza cuore” (per semplificare), vale sempre e comunque molto, agli occhi del cielo.

«Capita che, di mattina presto, fuori dalla Cappella dell’ospedale, dentro di me senta il rifiuto ad entrare ancora una volta, ancora una volta di fronte a dei cadaveri innocenti. Non voglio, sento – forte e chiara – la mia ribellione, ma lo faccio ugualmente, con tutto me stesso. Mi impegno con lo slancio di cui riesco a disporre. Non è affatto questione di ipocrisia, anzi è una grande consolazione: fare (fare il bene) ha un suo valore oggettivo, al di là della presenza di una volontà e di una consapevolezza. Anzi direi che è proprio il fare il bene che, via via, radica in noi nel tempo quella consapevolezza che, dunque, può comparire successivamente…

Penso a quanto narrato nel film “Schlinder’s List”: da principio, il protagonista Oskar aiuta gli ebrei, sì, ma con una certa leggerezza ed fin per trarne vantaggio personale. Poi, via via, arriva la passione, che apre finalmente gli occhi all’uomo, il quale alla fine vive nel rimorso di non aver fatto abbastanza. È la medesima parabola esistenziale di tanti santi, che terminano la vita nella tristezza quando non nella disperazione, poiché comprendono quanto poco essi hanno fatto, rispetto a ciò che avrebbero potuto.

In conclusione, prendersi cura del prossimo è una scelta giusta, sempre, al di là delle intenzioni (che il bene stesso poi comunque alimenta e rinforza). Se tutti domani iniziassimo ad occuparci del bene altrui, il mondo cambierebbe all’istante. Siamo esseri umani, non è necessario essere santi per offrire il proprio contributo. L’essenziale è scegliere di agire senza aspettare (e senza attendere di essere ispirati). L’essenziale è partire da ciò che siamo, da qui, da subito».

Giorgio De Martino